Russia-Ucraina, come funziona il “guerrilla marketing” occidentale

Tra le “armi” mediatiche sfoderate in quella che si può considerare la prima “Guerra ibrida mondiale”, anche il marketing sta facendo la sua parte. La guerra di informazioni può essere considerata la principale innovazione del conflitto, ma quella mediatica occidentale è davvero un’offensiva così efficace?

Mentre infuria la guerra sul campo di battaglia reale, gli enti governativi russi continuano ad inasprire le proprie misure a difesa del campo di battaglia digitale sebbene, a detta di molti analisti, non con molto successo.

Che si tratti di attacchi hacker o di insidiose campagne pubblicitarie e mediatiche, le narrative occidentali sembrano riuscire continuamente ad aprirsi dei varchi nelle mura del Cremlino.

Non è un caso che, almeno dalle indiscrezioni fatte trapelare dal canale Twitter di opposizione alle politiche russe Nexta, le autorità moscovite stiano pensando di attuare un piano di disconnessione della rete telematica russa dalla rete globale di Internet, al fine di realizzare una intranet autarchica (RuNet) sul modello di quella cinese.

Tale progetto, in realtà già ideato e pronto sin dal 2019, dovrebbe permettere alle autorità moscovite di alzare completamente il ponte levatoio nei confronti del mondo, impedendo l’infiltrazione indiscriminata di narrazioni e di incursioni informatiche ostili nei vasi sanguigni digitali della nazione. Resta da vedere con quale efficacia.

Anche il marketing tra le armi mediatiche dell’occidente

L’occidente, nel frattempo, continua a sfoderare le armi più raffinate del proprio arsenale. Dopo la campagna informatica messa in atto dal collettivo Anonymous, le campagne mediatiche, la superiorità narrativa sui social e il sapiente uso delle app di messaggistica personale e degli smartphone direttamente sul campo di battaglia al fine di produrre un continuo flusso di immagini del conflitto, sembra ora arrivato il momento del marketing pubblicitario utilizzato come arma, grazie a una vera e propria campagna di brand promotion realizzata da alcune agenzie assoldate dal Governo ucraino, con l’aiuto di esperti occidentali.

La più recente sfaccettatura della battaglia per l’interdizione delle informazioni, infatti, ha visto la pubblicazione di una serie eterogenea di messaggi propagandistici filoucraini e di denuncia nei confronti del Governo di Mosca, direttamente su una vasta gamma di piattaforme e di spazi pubblicitari liberamente accessibili dal pubblico in Russia e, quindi, non direttamente soggetti alla censura preventiva del Roskomnadzor, l’Ente statale di controllo delle telecomunicazioni.

In questo caso, la tattica vincente si è dimostrata essere l’uso delle più spregiudicate tecniche di marketing, al fine di “bucare” il sistema informativo, approfittando di un contesto deregolamentato come quello degli spazi pubblicitari russi.

Dai pannelli digitali nelle metropolitane, alle email di spam, dagli sms ai banner pubblicitari sui siti di intrattenimento, fino alle indicizzazioni pilotate sui principali motori di ricerca russi – primo tra tutti, Yandex – le tecniche di guerrilla marketing si sono rivelate estremamente efficaci nel penetrare le reti di protezione poste dalle autorità del Cremlino.

D’altra parte, da un punto di vista strettamente comunicativo e strategico, è da rilevarsi come non vi sia poi concettualmente molta differenza tra la penetrazione di una brand narrative vincente in tempo di pace e quella di una policy narrative in tempo di guerra. Tutte le falle sono buone per riuscire a superare le difese del bersaglio, esattamente allo stesso modo di come ogni bug di un sistema informatico può rappresentare un varco per manomettere un sistema critico.
Guerra di informazioni: la dimensione più innovativa del conflitto

In effetti, la guerra di informazioni, al fine di ottenere la superiorità incontrastata nel cuore e nelle menti della popolazione e dei militari avversari, è stata certamente finora la dimensione più innovativa del conflitto ucraino, sebbene vada rilevato che molte delle dinamiche che la caratterizzino siano epigoni contemporanei di processi bellici antichi, dal momento che la guerra da millenni consiste in una metamorfosi continua di pratiche e di metodi che si adattano in maniera proteiforme, non solo ai mezzi tecnici a disposizione dei contendenti, bensì anche ai diversi linguaggi e alle diverse conformazioni dei campi di battaglia.

Pure in questo caso, come nelle guerre di ogni tempo, la difesa e l’attacco delle mura invisibili della polis, grazie ad azioni dimostrative di propaganda o all’uso sapiente della cosiddetta “nebbia di guerra”, si sono rivelati di primaria importanza, sia per gli strateghi che per i comandanti in campo.

In tale ottica, quindi, la più recente campagna pubblicitaria messa in atto in Russia, può essere interpretata come una declinazione digitale del “folle volo” in biplano, con tanto di lancio di volantini inneggianti all’Italia, compiuto da Gabriele D’Annunzio nei cieli di Vienna il 9 agosto 1918, vera e propria azione di guerra di informazioni ante litteram.

Tuttavia, a differenza del passato, il coinvolgimento tramite una continua e pressante chiamata all’azione da parte dei protagonisti dell’attuale conflitto nei confronti dei cittadini/prosumer, attraverso i media digitali, ha assunto una dinamica più pervasiva, delineandosi come tratto caratterizzante della narrazione del conflitto, divenuto presto un macro-evento globale in grado di fagocitare qualunque altra istanza dell’agenda setting.
Siamo tutti coinvolti e on the air

In effetti, tutti siamo coinvolti in questa guerra, nessuno escluso, continuamente on the air e direttamente sui nostri smartphone, a portata di like o di condivisione, un wargame che porta il conflitto direttamente nelle nostre vite, un mediashock, per dirla nell’accezione di Richard Grusin, nel quale separare la dimensione reale da quella mediata è letteralmente impossibile.

Ma, d’altra parte, quella che potrebbe passare alla storia come la “prima grande guerra ibrida mondiale”, consiste proprio in questa commistione tra narrazione e realtà, uno scontro nel quale le ragioni del racconto dettano i tempi e le azioni sul campo di battaglia reale, sconfinando sin nelle nostre vite.

L’approntamento di difese narrative nei confronti delle rispettive popolazioni, così, occupa a ragion veduta una buona parte degli sforzi dei belligeranti. Dai filtri degli algoritmi nei social, al blocco degli account o dei media outlet avversari, dall’individuazione dei canali informativi clandestini attraverso cui far filtrare e accaparrarsi informazioni, agli attacchi di defacciamento o manomissione da parte di gruppi hacker come Anonymous, il tentativo di “bucare” la cyber fortezza delle informazioni del nemico è stato, ed è tutt’ora, l’obiettivo costante dei belligeranti.

Del resto, se all’apice della modernità, la distruzione dei centri di produzione hardware era uno degli obiettivi della Seconda guerra mondiale, perché quello della guerra postmoderna non dovrebbe essere la distruzione o la manomissione dei centri di produzione software, ovvero dei fornitori di contenuti, prosumer compresi?

Il virus informatico, l’arma più temuta

“Firewall” è il termine che, più di tutti, si è imposto come coagulo di tale nuova tendenza della guerra, un muro di fuoco atto a proteggere la città digitale dalle incursioni nemiche mediante l’intercettazione attiva o la difesa passiva delle narratives o dei virus ostili.

E già qui possiamo aprire una breve riflessione, consegnando poi approfondimenti concettuali in merito a ricerche future. Ma, si sa, è dai tempi degli studi sulle tecniche di propaganda della Grande Guerra che le scienze sociali osservano attraverso la tragica lente della guerra i mutamenti comunicativi in atto nella società.

In effetti, che si tratti di un testo narrativo o di una serie di istruzioni in linguaggio macchina, il “virus informatico” sembra essere il termine chiave per concettualizzare l’arma più temuta dai sistemi avversari. E d’altra parte, cos’è un virus informatico, se non una serie di istruzioni capaci di introdursi clandestinamente in un sistema informatico ospite, sfruttando delle debolezze non conosciute dal programmatore, al fine di fargli eseguire istruzioni impreviste?

Non potremmo, così, paragonare anche i firewall e gli antivirus per proteggersi dagli hacker, alla censura e ai metodi di protezione da narrazioni ostili, messe in atto da entrambi i contendenti nella guerra di informazioni/informatica tra Russia e Occidente?

In effetti, siamo così sicuri che cyberwar e information war non siano che le proverbiali facce della stessa medaglia, ovvero due declinazioni diverse di un unico fenomeno, quello delle guerre nel cyberspazio, combattute al confluire tra le nostre città di mattoni, di sangue e di bit?

Se Mosca piange, l’occidente non ride

Qualunque ne siano le ripercussioni e le sfaccettature, tuttavia, praticamente tutti gli analisti concentrati sul conflitto, anche quelli di parte russa, concordano sul fatto che Mosca stia perdendo la guerra delle narrazioni, né accenni a intraprendere alcuna campagna di cyberwarfare su larga scala, soggetta ad una pressione informativa tale che le paratie stagne della censura e dei firewall informatici fatichino a contrastare, mentre le falle continuano ad allagare l’opinione pubblica, inficiando i risultati dell’azione sul campo che, comunque, vede finora le forze armate russe intente ad assediare le principali città ucraine.

Eppure, quella mediatica occidentale è davvero un’offensiva così efficace? O non è piuttosto destinata a rischiare di rivelarsi una falsa vittoria? Restando in metafora, infatti, se narrazioni e attacchi informatici possono essere equiparati a dei virus, resta da rilevare che entrambe possono scontrarsi contro il muro più efficace e, nello stesso tempo, più vulnerabile di un sistema informatico, quello del cosiddetto “fattore umano”.

Nessuna campagna di marketing, infatti, per quanto penetrante e pervasiva, può nulla se i bias del target si ergono a protezione delle narrazioni predominanti e, sebbene in passato quelle occidentali siano riuscite a fare breccia in quelle russe – in concomitanza con la fine della guerra fredda – questa volta il compito affidato al soft power potrebbe rivelarsi più ostico, dinanzi all’ipotesi di un arroccamento da parte della popolazione, coinvolta in una guerra più calda. Vedremo se anche questa volta, il racconto occidentale potrà porsi come modello di riferimento e di dialogo, per la ricerca e la costruzione della pace.
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