Quando la pubblicità (s)parla della concorrenza

Il 4 ottobre di 6 anni fa  il mondo ha avuto il piacere di scoprire com’era veramente il primo smartphone interamente #MadeByGoogle. Il lancio dell’ultima creazione Google è stato preceduto in quei giorni da una campagna pubblicitaria incentrata sull’hardware del progetto, più che sul suo software — prova la presenza di svariati cartelloni pubblicitari e installazioni che ritraggono la sagoma (e quindi anche la sua componente esterna) di un cellulare.

 

Una strategia in crescendo per la compagnia di Mountain View, che decide di affrontare il giorno della presentazione ricordando ai suoi clienti che questa volta non si scherza, il prossimo cellulare Google sarà un valido rivale per i dominatori del mercato Samsung e Apple.

Allora quale modo migliore di stuzzicare gli avversari se non farsi beffa di loro?

Quella dell’ad-shaming è una pratica sempre più adottata, in campo pubblicitario, dalle grandi compagnie — soprattutto nella fase di lancio di un nuovo prodotto.

La tecnica di sfruttare le debolezze, i difetti, le svirgolate dell’avversario non è nuova, ma nell’ultimo decennio – grazie allo sviluppo dei social e del concetto di viralità – l’ad-shaming è diventato uno dei campi di battaglia preferiti dalle società in cerca di visibilità rapida e che potenzialmente metta in ridicolo il contendente.

 

In situazioni di capitali pressoché identici – o comunque talmente ingenti da non risultare decisivi in situazioni di duopolio – il vero ago della bilancia è il parere del cliente. L’opinione pubblica al giorno d’oggi è ciò che determina il successo o il fallimento di un’impresa finanziaria di pubblico dominio.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla nascita di conglomerati finanziari come la Alphabet, che sulla riuscita dei loro progetti non basano tanto il successo economico quanto la fiducia dei loro investitori. Quando si parla di pubblicità, non si tratta più di solo marketing, ma di una vera e propria strategia del potere d’immagine. Per questo, spesso, la sfida fra compagnie rivali procede ininterrotta per anni.

Diventato emblema del duello al di là del prodotto è la sfida fra Coca-Cola e Pepsi. I due giganti delle bibite zuccherate hanno intessuto un rapporto pubblicitario molto stretto, quasi dipendente. A partire dalla Pepsi Challenge del 1975 ( in foto esterna).

Il duello raggiunse livelli brutali.

Memorabili anche le campagne pre-millennials messe in scena tra Mac e Pc (agli atti Apple e Microsoft), basate su arguzia e ironia tipiche della Silicon Valley.

Ma non sempre lo spettatore rimane passivo davanti a questi duelli pubblicitari, a volte capita che le aziende chiedano il contributo dei loro clienti. Qualche anno fa, dopo una serie di cartelloni pubblicitari con cui si  provocavano a vicenda, Audi e BMW hanno chiesto ai loro fans su Facebook di modificare le immagini nella maniera più creativa possibile. Potete immaginare il risultato.

La rivalità poi non può certo mancare nel settore dei videogame, e così, dopo la gaffe nel 2013 dell’Xbox sul prestito videogiochi, la Playstation si sente quasi in dovere di sfruttare la figuraccia dell’avversario per fini pubblicitari.

E gli spettatori apprezzano.

Negli ultimi anni quasi inevitabile è stato lo scontro titanico fra Apple e Samsung.

L’immaginario creato dall’azienda di Cupertino si è rivelato terreno fertile per una sfida pubblicitaria, Samsung si prende così beffa delle idiosincrasie e delle fissazioni dei seguaci della mela.

Ora che anche Google si è unito nel prolifico settore della telefonia, non c’è dubbio che la sfida a colpi di pubblicità si intensificherà. Ricordiamoci però che tra i due litiganti il terzo gode.

Pubblicità comparativa: se non dice la verità diventa denigrazione

Secondo il Tribunale di Milano, l’illecito scatta quando una società comunica informazioni errate su un proprio competitor a scopo promozionale

 

Una comunicazione pubblicitaria comparativa diventa denigratoria quando non si limita a raffrontare i prodotti ma omette in modo deliberato e consapevole informazioni utili e veritiere. Conta il linguaggio con cui il messaggio viene espresso che non deve travalicare le regole della «continenza». Lo ha stabilito il tribunale di Milano che ha riconosciuto, con due diverse decisioni (le ordinanze del 4 gennaio 2021 e del 3 dicembre 2020) la sussistenza dell’illecito concorrenziale in relazione alle comunicazioni pubblicitarie denigratorie nei confronti di un concorrente e la violazione del’articolo 2598 n. 2 del Codice civile. Le pronunce dei Tribunali ordinari in tema di pubblicità denigratoria in cui i giudici oltre a decidere sul singolo caso enunciano argomentazioni di principio sono molto rare. Non esistono inoltre decisioni ella cassazione. Queste due recenti pronunce del Tribunale di Milano secondo le quali l’illecito non è determinato dalla mera comparazione fra i prodotti ma dalle modalità del raffronto sono quindi di particolare interesse.

La giurisprudenza

Secondo l’articolo 2598 n. 2 del Codice civile diffondere «notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito», è un atto di concorrenza sleale. Negli anni, le poche pronunce della magistratura ordinaria hanno avuto un approccio ondivago. Da un lato si sono basate sulla convinzione che la comunicazione pubblicitaria – per sua insita natura – difficilmente potrebbe essere imparziale ed obiettiva, anche se veritiera. Ogni ipotesi di comparazione, soprattutto se esplicita, determina quindi automaticamente l’illecito concorrenziale relativo alle comunicazioni commerciali denigratorie verso un concorrente a prescindere dalla sua veridicità (Tribunale di Bologna, 31 luglio 1976). Dall’altro, la pubblicità comparativa è stata rienuta lecita a patto che fosse veritiera e veicolata in modo non subdolo o tendenzioso e tale da sfociare, appunto, nella denigrazione: rappresentando fatti veri, il discredito che ne deriverebbe sarebbe, sostanzialmente, meritato. Un’impostazione cui si avvicinano le due recenti decisioni del Tribunale di Milano che non hanno ritenuto la pubblicità comparativa di per sé denigratoria ma hanno sanzionato il modo in cui è avvenuto il raffronto.

L’omissione di informazioni

Con l’ordinanza del 3 dicembre 2020 il Tribunale si è pronunciato su una comunicazione commerciale avente ad oggetto la promozione di una app per il pagamento e la gestione della sosta di veicoli “contactless”. Il messaggio, corredato di documentazione fotografica riportante le immagini di parcometri prodotti e venduti da un concorrente, enfatizzava il rischio che i parcometri potessero favorire la diffusione di microrganismi patogeni, a differenza dell’utilizzo della app oggetto della promozione. I giudici milanesi hanno però evidenziato che anche per il funzionamento della app è richiesta l’interazione con uno smartphone, possibile fonte, anch’esso, di diffusione di microrganismi patogeni. Sotto questo profilo, il messaggio avrebbe omesso di svolgere una «doverosa comparazione tra rischi del tutto omogenei» con una deliberata e consapevole omissione di informazioni utili all’uniformità del confronto che, nei fatti, intaccava la veridicità di quanto dichiarato. Ciò, unito al fatto che le immagini a corredo del messaggio riproducevano solo i parcometri del competitor ricorrente, ha portato a ravvisare un chiaro intento denigratorio.

L’omissione di informazioni

Con l’ordinanza del 3 dicembre 2020 il Tribunale si è pronunciato su una comunicazione commerciale avente ad oggetto la promozione di una app per il pagamento e la gestione della sosta di veicoli “contactless”. Il messaggio, corredato di documentazione fotografica riportante le immagini di parcometri prodotti e venduti da un concorrente, enfatizzava il rischio che i parcometri potessero favorire la diffusione di microrganismi patogeni, a differenza dell’utilizzo della app oggetto della promozione. I giudici milanesi hanno però evidenziato che anche per il funzionamento della app è richiesta l’interazione con uno smartphone, possibile fonte, anch’esso, di diffusione di microrganismi patogeni. Sotto questo profilo, il messaggio avrebbe omesso di svolgere una «doverosa comparazione tra rischi del tutto omogenei» con una deliberata e consapevole omissione di informazioni utili all’uniformità del confronto che, nei fatti, intaccava la veridicità di quanto dichiarato. Ciò, unito al fatto che le immagini a corredo del messaggio riproducevano solo i parcometri del competitor ricorrente, ha portato a ravvisare un chiaro intento denigratorio.

Le modalità espressive

Nella ordinanza di reclamo dello scorso 4 gennaio, i giudici di Milano hanno preso posizione su un messaggio veicolato da una nota compagnia aerea nei confronti delle Ota (Online Travel Agents), colpevoli, a detta dell’inserzionista di:

  • operare in modo illegittimo in quanto carenti delle necessarie autorizzazioni;
  • aver truffato i clienti applicando sovrapprezzi alle prenotazioni;

  • aver comunicato alla compagnia aerea dati di prenotazione non validi e tali da inficiare l’efficacia delle pratiche di rimborso.

  • Nel messaggio passato al vaglio del Tribunale di Milano, l’inserzionista auspicava anche un rapido intervento di regolamentazione delle attività di tali soggetti. Il Tribunale, dunque, oltre ad aver rilevato la non veridicità di quanto affermato dalla compagnia aerea in relazione all’illegittimità dell’azione delle Ota (titolari di regolari licenze per poter operare) e conseguente denigratorietà del messaggio, ha altresì posto l’accento sulle modalità di veicolazione del messaggio. Modalità che nel parere dei giudici ha travalicato le forme di continenza che la comunicazione commerciale richiederebbe. L’inserzionista, infatti, oltre ad aver veicolato informazioni non corrispondenti al vero, ha, altresì, fatto riferimento in modo non troppo implicito agli intenti truffaldini delle Ota, con ciò palesando il proprio intento denigratorio. Si consideri, peraltro, che, ai fini della liceità della comparazione, rilevano oggi in modo importane anche le modalità linguistiche di espressione del messaggio. Anche laddove l’informazione veicolata sia veritiera, dunque, dovrà sempre valere il principio di continenza espressiva.

LE INDICAZIONI

1. Il linguaggio
Ai fini della liceità della comparazione rilevano anche le modalità linguistiche di espressione del messaggio. Anche se l’affermazione veicolata fosse corrispondente al vero, vale infatti il principio della continenza espressiva che impone l’utilizzo di un linguaggio moderato e non eccessivo.

Tribunale di Milano, ordinanza del 4 gennaio 2021

2. Contenuti veritieri
Il confronto fra due prodotti contenuto in un messaggio di pubblicità comparativa non deve omettere , deliberatamente e consapevolmente informazioni utili e veritiere all’uniformità del confronto. Nel caso esaminato non era stata svolta una «doverosa comparazione tra rischi del tutto omogenei» che avrebbe intaccato, nei fatti, la veridicità di quanto dichiarato.

Tribunale di Milano, ordinanza del 3 dicembre 2020