Brandroad. Le vie della marca (9). A cura di Matteo Lusiani

I brand nella società – 9

 

Nella scorsa puntata abbiamo mostrato come i brand siano dei simboli e agiscano nella società e nella cultura come qualunque altro simbolo. C’è una corrente sociologica nata all’inizio del secolo scorso che può esserci utile a comprendere meglio questo punto. Si chiama “interazionismo simbolico” e il suo principale contributo è aver iniziato ad analizzare il comportamento delle persone non come una reazione agli stimoli dell’ambiente, ma come il risultato dell’interpretazione simbolica dell’ambiente. Detto con altre parole, le nostre azioni non sono dettate dall’ambiente o dalle situazioni in sé, ma dal significato che diamo a quell’ambiente e a quelle situazioni.

 

È facile capirlo pensando all’abbigliamento. Prendiamo due polo identiche, una con il logo della Nike e una con quello di Armani. Immaginate un aperitivo elegante in riva al mare ad agosto: la polo di Armani è ideale, mentre la polo della Nike appare fuori posto. In pratica noi non interagiamo con l’oggetto “polo” in base a quello è, altrimenti i contesti d’uso delle due polo sarebbero gli stessi, ma interagiamo in base al significato simbolico che diamo alle due polo.

 

Un altro principio interessante dell’interazionismo simbolico è che il significato simbolico che attribuiamo agli oggetti, alle persone e alle situazioni – dunque anche alle due polo – nasce dall’interazione sociale. Non è imposto dall’alto, né è deciso dai singoli. Torna in mente la definizione di brand di Andrea Semprini come totalità dei discorsi che si sviluppano intorno a una marca: un simbolo (e quindi anche una marca) esiste perché alcune persone condividono il fatto che significhi qualcosa.

 

Dunque se le persone agiscono in base al significato che danno alle cose, il ruolo dei brand nella società è di contribuire alla costruzione di questi significati, aiutare le persone a interpretare e interagire con la realtà. 

 

Troviamo un esempio interessante nel libro di Jeff Chang “Who We Be” che parla dei cambiamenti sociali negli Stati Uniti dagli anni Sessanta a oggi. Uno dei capitoli inizia così:

 

“Tra la turgida estate del 1971 e il terribile autunno del 1972, i telegiornali devono essere sembrati inesorabili: milioni di persone in marcia per fermare la guerra, prigionieri in rivolta ad Attica, gli scandali Watergate e Pentagon Papers, i processi Manson e Serpico e My Lai, colpi di pistola a Monaco, bombe a Washington e l’esercito a Derry. Dolore, odio e miseria. Dov’era l’armonia, dolce armonia? Era nell’intervallo pubblicitario, in una pubblicità della Coca-Cola”.

 

La pubblicità a cui Jeff Chang si riferisce è quella con cui abbiamo iniziato questo viaggio, nel primo episodio. Un gruppo di giovani di nazionalità diverse si trovano sopra una collina e cantano una canzone sulla pace universale tenendo tra le mani una bottiglietta di Coca-Cola. Jeff Chang ne parla come di un’operazione di marketing, dice che ogni giovane su quella collina teneva in mano una quota di mercato. Ma dice anche che non era uno spot disonesto e sottolinea il valore sociale di aver mostrato agli Stati Uniti, forse per la prima volta, una convivenza armoniosa tra persone diverse. Imagine di John Lennon sarebbe uscita qualche mese dopo. Secondo Jeff Chang quella era “un’insolita pubblicità che ammetteva un possibile futuro multiculturale” e aggiunge che ci sarebbero voluti decenni prima che molti realizzassero che quel futuro era davvero possibile. 

 

Fare branding significa fare cultura. Questa semplice verità è uno dei segreti più preziosi per la costruzione di una marca. Un brand deve trovare un posto nell’immaginario collettivo e significare qualcosa per le persone, o non potrà mai avere anche un valore economico. Deve emozionare, o non potrà mai spingere all’acquisto. 



Matteo Lusiani

Consulente per strategie di branding | matteolusiani.com

Autore del podcast “Brandroad. Le vie della marca” | brandroad.it

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