La Mala Comunicazione – Senti chi (s)parla di Marina Martorana

Social user, politici, media, addetti stampa: il grande vuoto di cultura basilare, educazione e competenza professionale

Premessa. La mala-comunicazione oggi aleggia imperterrita ovunque, con i suoi sgradevoli spifferi di sciatteria. La si può suddividere, in linea di massima, in verbale , scritta, involontaria.

In ogni caso reca danno. Blocca, offende, irrita, inibisce, non interessa: non centra l’obiettivo primario del comunicare, del creare relazioni personali e professionali, amicizie, sentimenti, business.

Viviamo, ahinoi, in un’epoca di cafonaggine dominata dalla fretta, dove sono disattese persino le più elementari basi del rapportarsi con gli altri: ascoltare l’interlocutore senza dare segni di noia o di impazienza, guardarlo negli occhi, magari fargli qualche domanda in relazione a quanto sta raccontando, non essere autoreferenziali, usare un tono di voce diciamo contenuto o meglio, privo di urla, grida o gridolini e ancora, meglio evitare le parolacce fuori da Bar Sport.

Utile ricordarsi che la tanto menzionata empatia non si studia da nessuna parte tantomeno si inventa, è una dote innata, parte del patrimonio genetico individuale. Fortunati i comunicatori che la possiedono. Meglio quindi far sempre leva sulla buona educazione, quella invece si può apprendere.

Lasciamo a parte le fake news, panzane intenzionali pensate e gestite per far credere il falso e causare scompiglio, un discorsetto che per molti aspetti rientra più che in una mala, nella fanta-comunicazione.

Diamoci piuttosto un’occhiata in giro tra quanti, e tanti, credono di comunicare benissimo. E, oltre all’inconcludente piatto appena menzionato, aggiungono senza rendersene conto altri stonati ingredienti.

Eccoci sui social, definiti dagli intellettuali il rifugio degli ignoranti. Evviva la libertà di espressione, certo, ma come dar torto alla definizione di webeti?

Fa effetto vedere post pieni di giudizi, di livore o di approvazione conditi da grossolani errori di ortografia. Congiuntivi e condizionali in primis, ma non solo. Accenti dove non vanno messi, virgole e apostrofi a casaccio e via così.

Come può una persona ergersi al di sopra di tutti con la sua opinione se manca di elementari basi scolastiche? In che modo e dove ha forgiato idee e concetti? Quale credibilità diffonde? Le sue parole appaiono come un personalissimo sfogone, condivisibile o meno, non incidono nella massa come vorrebbe. A livello subliminale o cosciente l’errore, si sa, fa lo storpio.

Lo stesso vale per la nuova generazione di politici, benchè dotati di nutriti team di spin doctor – in genere scrivono in modo corretto – quando parlano, però, confondono l’Ucraina con la Romania, il Reno con la Senna, sono convinti che la guerra fredda sia stata una battaglia che ha avuto luogo in Alaska.

No comment sulle lingue straniere deformate. Tanto per esemplificare, il recovery fund è scandito “faund” invece di “fand” e in atelier viene pronunciata la “r” finale.

Ma passiamo ai professionisti, a coloro che dovrebbero conoscere a menadito le tecniche di comunicazione.

Abbiamo visto tutti come i media italiani hanno gestito (e stanno gestendo) le informazioni sulla pandemia. Una fotocopia gli uni degli altri. Sempre il Covid in pole position, con articoli pro e contro vaccino, grafici con anche il numero di morti giornalieri, nomi e cognomi dei defunti. Il tutto sparso qua e là, in ogni settore.

Con il risultato di creare una allarmante confusione collettiva, mista tra paura e scetticismo. Quante e quante persone dichiarano di non leggere più nulla sul virus o di non ascoltare per questo radio e tivù?

Purtroppo oggi i professionisti che lavorano nelle redazioni sono sempre di meno e la qualità dell’informazione ne risente parecchio.

Chi ha dato un’occhiata alla stampa estera, può ben capire la differenza nel porgere le delicatissime news e, non ultimo, il rispetto verso vivi e mancati.

Ricorderete la storica prima pagina del New York Times, con nomi e storie dei morti per coronavirus nel 2020. Un grande omaggio che a nessun italico media è balzato in mente.

Peraltro, andando un po’ a fondo, si scopre che i poveri tizio e caio deceduti causa virus erano affetti da gravi malattie pregresse. Ma questo aspetto non fa notizia, è noto anche a chi non è laureato in medicina che, al di là del famigerato Coronavirus, un malato terminale o affetto da incurabili patologie sia fragilissimo e possa soccombere pure per una banale influenza.

Il sensazionalismo e il pressing informativo, tanto cari – evidentemente – alla carica dei neofiti nelle nostre testate produce la marcia indietro del pubblico.

Passiamo a chi comunica per aziende, Enti, associazioni. Redige un comunicato stampa lunghissimo, con un carattere minuscolo, privo o quasi di accapo. Nessun vero titolo, oppure un’altra spataffiata di parole a mò di titolo citando il brand. Forte, così crede l’addetto, di star lavorando per un marchio talmente importante da fungere da testa d’ariete nella mediaticità.

E invece no, non funziona così. Peccato che l’incaricato lo ignori, e mandi il suo testo alla mailing list comprata da qualche agenzia o ereditata dal suo /a predecessore, mai verificata.

Infatti comprende nominativi di giornalisti deceduti, pensionati, di quanti hanno cambiato testata, di chi non si occupa più del tal argomento.

I pochi redattori o freelance che ricevono l’email ( e in genere è la millesima del giorno) non hanno tempo e voglia di scervellarsi per capire quale sia la notizia, così click, cestinano la missiva.

Sembra una barzelletta, invece è realtà. Pur scrivendo in corretta lingua italiana, unendo al comunicato un gentilissimo testo in cui si caldeggia l’importanza della news, esiste un preciso linguaggio e, meglio ancora, anche una determinata forma cui attenersi quando si scrive un comunicato stampa.

Ci fermiamo qui nella speranza di aver illustrato il senso e di non apparire come dei predicatori, ma in veste di (appassionati) osservatori della realtà: comunicare non è un’improvvisazione, bensì una disciplina con regole e tecniche universali.

di Marina Martorana
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