La Comunicazione del futuro

Nei media digitali odierni è importante esserci, più che comunicare. Questo porta a un esito paradossale, e cioè che i cosiddetti “nativi digitali”, benché siano la generazione con più “amici”, sono anche la generazione più sola.

Per me che scrivo e probabilmente per molti dei lettori che non sono nativi digitali, la parola “comunicazione” rimanda immediatamente alla conversazione faccia a faccia: a due persone che si guardano negli occhi e discutono tra loro. Tutte le altre forme di comunicazione – dai messaggi vocali alle immagini postate sui social media – sono solo un pallido riflesso della “vera” comunicazione, quella che non avviene sui media digitali, ma passa attraverso il corpo, la voce, le mani, le espressioni del volto.

Eppure, le cose stanno cambiando molto velocemente. Complice anche il Covid, la comunicazione interpersonale si è spostata per tutti sui canali digitali. I dati di WeAreSocial che descrivono la situazione in Italia a metà del 2021 (i dati completi sono disponibili qui: https://bit.ly/3c6dfdM) sono molto chiari. In media, nella fascia d’età tra i 16 e 64 anni, ciascun italiano passa su Internet più di 6 ore al giorno, di cui quasi 2 sui social media. Se poi ci concentriamo solo sui più giovani, ci accorgiamo che la loro comunicazione passa praticamente tutta sui media digitali. Infatti, da quando anche la scuola è passata dalle lezioni in aula a quelle a distanza, il tempo trascorso online raggiunge le 10-12 ore al giorno. Più di qualsiasi attività quotidiana, sonno compreso.

COMUNICARE E INFORMARE

Potremmo mai trascorrere 12 ore al giorno, tutti i giorni, comunicando vis à vis? Ovviamente, la risposta è no. E in effetti la comunicazione digitale è significativamente diversa dalle conversazioni vis à vis.

Come spiega il filosofo Paul Grice nel suo testo classico Logica e conversazione, comunicare significa cooperare. In particolare, a regolare ogni conversazione è il “principio di cooperazione”: da’ il tuo contributo al momento opportuno, così com’è richiesto dagli scopi e dall’orientamento della conversazione in cui sei impegnato. E per farlo ciascuno di noi dovrebbe rispettare 4 massime:

massima della quantità: non dire troppo o troppo poco;

massima della qualità: non dire ciò che è falso o di cui non sei sicuro;

massima della relazione: sii pertinente;

massima del modo: non essere ambiguo od oscuro.

Dal punto di vista delle neuroscienze, il principio di cooperazione richiede un complesso processo di sintonizzazione che porta progressivamente i soggetti a ridurre le proprie distanze cognitive. La recente introduzione della tecnica dell’hyperscanning, che consente di investigare il funzionamento di due o più cervelli in interazione, ha infatti permesso di verificare che in un gruppo di persone, attraverso la cooperazione comunicativa, si attua un progressivo processo di sincronizzazione delle onde cerebrali dei suoi membri (l’articolo in inglese è disponibile su: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0960982217304116). Questa attività di sincronizzazione, a sua volta, è direttamente proporzionale alle dinamiche sociali e al coinvolgimento nelle attività comuni: maggiore è la sincronizzazione del funzionamento cerebrale, maggiori sono il coinvolgimento nella comunità e la creatività espressa dal gruppo.

Tuttavia, se andiamo ad analizzare molti scambi e contenuti disponibili sui media digitali, la prima impressione è che rispettare il principio di cooperazione non sia il principale obiettivo della maggioranza degli utenti. Ma se allora sui media digitali non si coopera molto, che cosa si fa? Come spiega la psicologia della comunicazione, alla comunicazione è possibile contrapporre l’informazione. Se la comunicazione passa per la cooperazione tra le parti, obiettivo dell’informazione è semplicemente passare un dato, una notizia. La differenza è grande. Infatti, condividere un’informazione non implica necessariamente un impegno del soggetto emittente nei confronti del soggetto ricevente, cosa che invece è implicata nella conversazione: se ti parlo, poi ti ascolterò.

In effetti, agli adolescenti, e non solo a loro, l’idea di informare invece di comunicare piace molto. Come raccontato da una ricerca realizzata dalla società americana Commonsense (i dati completi sono disponibili qui: https://goo.gl/3UWfHx), solo il 32% degli adolescenti americani ha scelto la comunicazione faccia a faccia come mezzo preferito per comunicare con i propri amici. Il 35% preferisce la messaggistica testuale e vocale, il 16% i social media e il 10% la videochat. Il cambiamento è evidente anche nell’uso dello smartphone. Sempre più adolescenti preferiscono i messaggi vocali asincroni, in cui raccontare le proprie richieste e/o posizioni senza un confronto immediato con l’altro, alla classica telefonata sincrona, in cui le proprie richieste e posizioni richiedono un immediato confronto e cooperazione con i bisogni e le intenzioni dell’altro. E anche nelle chat di WhatsApp, i messaggi e le immagini condivise, più che attivare una conversazione, servono per segnalare che «io ci sono». Detto in altre parole, più che cooperare, nei media digitali è importante esserci, senza che ciò implichi necessariamente un rapporto “vero” con gli altri. Il risultato finale è paradossale. Nonostante i nativi digitali siano la generazione con il maggior numero di “amici”, è anche la generazione più sola.

ALCUNE APP DEDICATE

Per risolvere questo problema le società tecnologiche stanno lavorando a due alternative. La prima, tecnologicamente più semplice, è la realizzazione di app che consentano la creazione di reti sociali collaborative, composte da piccoli gruppi di persone interessate davvero a comunicare tra loro (private social). Tra le app al momento di maggiore successo, troviamo Social, una specie di WhatsApp senza raccolta di dati personali, e Clubhouse, il social basato soltanto sulle conversazioni vocali.

La seconda app, decisamente più radicale, prevede di utilizzare le tecnologie digitali per sincronizzare direttamente le onde cerebrali di due soggetti interagenti, cosa oggi possibile.

A partire dai positivi risultati sperimentali, diverse società commerciali – dalla controversa Neuralink (https://neuralink.com/) fondata dall’imprenditore Elon Musk, alla società americana Next-Mind (https://www.next-mind.com) – stiano sviluppando una serie di prodotti commerciali che hanno come obiettivo quello di consentire la comunicazione per mezzo della connessione diretta dei cervelli. Per esempio, il primo prodotto della società Next-Mind, disponibile ora al prezzo di 399 $, consente già di usare le proprie onde cerebrali per controllare il proprio PC. Il prossimo passo è quello di consentire una comunicazione bidirezionale tra utenti integrando, come nel progetto BrainNet, l’EEG con la stimolazione transcranica. Diversi commentatori hanno suggerito che nei prossimi dieci-vent’anni, la connessione diretta tra cervelli potrebbe diventare la principale forma di comunicazione cooperativa. Ai messaggi e ai social media rimarrà il compito di renderci visibili all’interno del gruppo sociale, mentre la comunicazione multidirezionale tra cervelli potrebbe diventare il principale strumento per la creatività e la soluzione di problemi.

CLUBHOUSE: IL SOCIAL SOLO VOCALE

Come spiega il sito ufficiale (https://www.joinclubhouse.com), Clubhouse è »un nuovo social che usa la voce per permettere alle persone, ovunque si trovino, di chiacchierare, raccontare storie, sviluppare idee, creare amicizie e incontrare nuove persone interessanti in tutto il mondo«. Creato nell’aprile 2020 da Paul Davison e Rohan Seth, due giovani imprenditori americani, Clubhouse è un’app che consente agli utenti di conversare solo vocalmente in una serie di stanze – solitamente tematiche, ma non solo – aperte a tutti i membri e che a seconda dell’interesse dell’argomento possono attrarre da pochi amici a migliaia di utenti.

Dopo aver scaricato l’app (disponibile per iOS e Android) ed essersi registrati (al momento, solo su invito) si è liberi di cercare e visitare le stanze disponibili. In ogni stanza è possibile fermarsi semplicemente ad ascoltare, o, alzando la mano, per intervenire direttamente nelle discussioni che avvengono rigorosamente in tempo reale. Se all’inizio le discussioni erano solo in lingua inglese, ai primi del 2021 è nata una sezione dedicata, Clubhouse Italia, con una serie di stanze pensate per raccogliere gli utenti italiani. Per unirsi alla community di Clubhouse Italia basta iscriversi al canale Telegram, www.t.me/piazzaclubhouseitalia, e seguire gli eventi dal titolo #ClubHouseItalia.

IL PROGETTO BRAINNET: UN’INTERFACCIA MULTIUTENTE CERVELLO-CERVELLO

Come raccontato nell’articolo scientifico «BrainNet: A multi-person brain-to-brain interface for direct collaboration between brains» (il testo completo in inglese è disponibile qui: https://www.nature.com/articles/s41598-019-41895-7), un gruppo di neurofisiologi dell’Università di Washington e dell’Università Carnegie Mellon è riuscito a collegare direttamente il cervello di tre persone, consentendo loro di scambiare informazioni e di prendere decisioni condivise, utilizzando semplicemente le onde cerebrali. Per riuscirci, i ricercatori hanno utilizzato due diverse tecnologie. Un elettroencefalogramma (EEG), ha raccolto l’attività elettrica nel cervello del soggetto emittente attraverso gli elettrodi posizionati sulla testa. Le onde cerebrali così raccolte sono state poi inviate al cervello del destinatario, attraverso un dispositivo di Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS). Grazie a questo meccanismo, i tre soggetti hanno effettuato una particolare partita di Tetris. Due persone – i soggetti emittenti – possono vedere uno schermo con un blocco che cade, che può o non può essere necessario ruotare per adattarsi allo spazio nella parte inferiore dello schermo. A controllare la rotazione è solo il terzo soggetto – il soggetto ricevente –, che però, a differenza degli altri utenti, non vede lo schermo. Ciò significa che per decidere se e come ruotare il blocco egli deve ricevere un’indicazione dagli altri soggetti. Nell’articolo, i ricercatori sottolineano come la comunicazione effettuata solo tramite le onde cerebrali abbia avuto successo nell’81% dei casi, dimostrando la fattibilità di tale approccio.

LA NOSTRA IDENTITÀ SOCIALE

La comunicazione, però, non serve solo per cooperare o rendersi visibili. Come sottolinea la psicologia, la comunicazione ha un ruolo centrale nel permetterci di comprendere la nostra identità personale (chi siamo) e di negoziare la nostra identità sociale (qual è il nostro ruolo all’interno dei gruppi sociali di riferimento). Dal punto di vista delle neuroscienze, questo processo implica la connessione del linguaggio con un altro importante processo cognitivo: la memoria autobiografica.

Dal 1970, grazie alle ricerche sull’ippocampo svolte dallo scienziato americano John O’Keefe, le neuroscienze sanno che nel nostro cervello esistono dei neuroni specifici che sono in grado di riconoscere immediatamente la nostra posizione nello spazio (place cells), i confini che ci circondano (grid cells) e la posizione di altre persone al loro interno (social place cells). Se a lungo si è pensato che il principale obiettivo di tali neuroni fosse l’orientamento spaziale, le ricerche di Edvar e May-Britt Moser, che poi hanno vinto il premio Nobel per i risultati ottenuti, hanno invece dimostrato che essi sono fondamentali per attivare la nostra memoria autobiografica. Questa memoria, che unifica le nostre diverse esperienze di vita dando loro un senso, utilizza infatti i luoghi identificati da questi neuroni per costruire la nostra identità sociale. Siamo lavoratori perché andiamo in azienda, siamo studenti perché andiamo a scuola o in università, siamo tifosi perché andiamo allo stadio, siamo malati perché siamo in ospedale, e così via.

In altre parole, la comunicazione, affinché possa “riempire” di contenuti la nostra memoria autobiografica e quindi definire la nostra identità, deve avvenire in un luogo e/o includere la descrizione di un luogo, come avviene per esempio in un libro. Allo stesso tempo, i contenuti della memoria autobiografica sono sempre collocati in eventi che avvengono in un luogo (per un approfondimento si veda su https://bit.ly/3qjW1i2).

Quello che ha scoperto la ricerca scientifica nello scorso anno, e che hanno vissuto sulla propria pelle tutti coloro che in questi mesi hanno sperimentato lo smart working o la didattica a distanza (si veda l’articolo in lingua inglese «The neuroscience of smart working and distance learning», disponibile suhttps://bit.ly/3kLoonW), è che la maggior parte dei media digitali, compresi i social media e la videoconferenza, non attiva i neuroni GPS direttamente. E questo, come abbiamo discusso nei numeri precedenti di Psicologia contemporanea, può spiegare il sapore di spae­samento e di mancanza di senso, che nasce dall’impossibilità di collocare tali esperienze all’interno di un luogo (placelessness).

In quest’ottica, la costruzione di luoghi digitali in grado di attivare i neuroni GPS e di produrre esperienze capaci di lasciare un segno sulla nostra identità è una delle sfide su cui stanno lavorando tutte le società tecnologiche – da Apple a Facebook, da Microsoft ad Amazon – attraverso le tecnologie di Realtà Estesa (XR – Extended Reality) come la realtà virtuale o la realtà aumentata.

Al momento la principale barriera è legata alla tecnologia: per sperimentare ambienti digitali tridimensionali sono necessari particolari caschi od occhiali che hanno ancora un costo elevato. Tuttavia, in attesa che i prezzi scendano, sono già disponibili varie applicazioni, come vTime XR (https://vtime.net/), AltspaceVR (https://altvr.com), Facebook Horizon (https://www.oculus.com/facebookhorizon/) o Microsoft Mesh (https://www.microsoft.com/en-us/mesh), che consentono di sperimentare luoghi digitali sociali utilizzando tutti gli strumenti a disposizione degli utenti: da uno smartphone a un PC di fascia alta, dotato di casco immersivo. Le prime ricerche (è possibile leggere qui il report realizzato da Facebook: http://tiny.cc/iogioz) suggeriscono che i luoghi digitali non solo permettono di stabilire relazioni autentiche, ma anche che, per i soggetti introversi, sono addirittura più facili da creare di quanto avvenga nella relazione faccia a faccia. A partire da questi dati, numerosi commentatori scommettono che nei prossimi dieci anni la maggior parte dei social media si trasformerà in luoghi tridimensionali digitali, come lo era in passato Second Life.

MICROSOFT MESH: LA VIDEOCONFERENZA DIVENTA OLOGRAFICA

All’inizio del 2021 Microsoft ha lanciato Mesh, un’applicazione che consente ai suoi utenti di tenere riunioni tramite ologrammi mentre si trovano in luoghi diversi. Le comunicazioni sulla piattaforma utilizzano la realtà mista per visualizzare ologrammi dei vari partecipanti. Infatti, tramite una sofisticata tecnologia di acquisizione 3D, l’applicazione consente di proiettare un’immagine reale di una persona su un palcoscenico virtuale e di creare avatar virtuali in grado di comunicare tra loro e d’interagire con oggetti negli spazi fisici.

Nonostante Mesh sia disponibile anche su smartphone, tablet e computer, per poter sperimentare gli ologrammi in tre dimensioni è necessario utilizzare HoloLens 2, occhiali intelligenti per realtà mista, che oggi costano ancora qualche migliaio di euro.

di Giuseppe Riva
su www.psicologiacontemporanea.it

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Selfie. Narcisismo e identità (Il Mulino, 2016).