Il silenzio degli sponsor alle Olimpiadi Invernali di Pechino 2022

Il silenzio dei giganti. Ovvero delle multinazionali che hanno investito sull’edizione invernale dei Giochi olimpici di Pechino 2022, al via a febbraio, ora spiazzate dai boicottaggi diplomatici in serie all’evento cinese.

Prima gli Stati Uniti, negli ultimi giorni, a ruota alcuni paesi vicini al pensiero americano come Australia e Regno Unito. La motivazione ufficiale è la violazione dei diritti umani cinese nella regione degli uiguri, le violenze sui musulmani turchi nello Xinjiang e nel conto finisce anche la repressione della libertà di parola a Hong Kong, che invoca la sua indipendenza da Pechino.

Sullo sfondo, neppure troppo, c’è la guerra commerciale in atto da anni tra Cina e Stati Uniti. La lista dei boicottaggi potrebbe non essere terminata, potrebbero aggiungersi presto altri paesi con un pedigree olimpico a cinque cerchi. Le conseguenze commerciali potrebbero essere incisive sugli sponsor ufficiali dei Giochi.

Il silenzio dei 13

Ecco i 13 sponsor ufficiali dei Giochi: Alibaba, Airbnb, Allianz, Atos, Bridgestone, Coca Cola, Intel, Omega, Panasonic, Procter & Gamble, Samsung, Toyota, Visa.

Panasonic, Toyota, Bridgestone e Visa dovrebbero aver puntato complessivamente due miliardi di dollari su Pechino 2022, dopo averne spesi oltre un miliardo dal 2013 al 2016 per i Giochi di Rio.

E il tema dei soldi investiti è la causa del silenzio degli sponsor sulle violazioni cinesi dei diritti umani. Nei mesi scorsi l’associazione no profit newyorkese Human Rights Watch ha scritto alla dirigenza dei 13 marchi ufficiali associati alle Olimpiadi invernali, chiedendo di sollecitare Pechino sul tema dei diritti umani. Solo Allianz ha risposto, spiegando di aderire ai valori dello sport olimpico.

In estate era stato il Parlamento europeo a invocare il boicottaggio di massa delle Olimpiadi cinese a causa della violazione dei diritti umani. Ora ci sono i boicottaggi diplomatici in fila, ma per gli sponsor i soldi in ballo sono parecchi.

Come riferisce Bloomberg, Coca Cola assieme a P&G, Intel e Toyota sommano 110 miliardi di dollari di entrate annue in Cina.

C’è il rischio, dunque, di conseguenze commerciali nel secondo mercato mondiale, con una platea potenziale di 1,4 miliardi di abitanti. Secondo Euromonitor International, inoltre, la Cina con 376 miliardi di dollari di fatturato annuo è il più grande mercato globale per abbigliamento e calzature, davanti anche agli Stati Uniti.

Denunciare costa caro: l’esempio di Adidas e Nike

Dunque, per ora si sceglie il silenzio. L’avvertimento per Coca Cola e soci è arrivato dal caso di Nike e Adidas. I due colossi dell’abbigliamento sportivo hanno registrato un robusto calo nelle vendite sulla più grande piattaforma di e-commerce cinese, Tmall (proprietà di Alibaba): per Nike, picchiata del 59%, per Adidas addirittura del 78% su base annua.

Sia Nike che Adidas avevano espresso preoccupazione per le condizioni degli uiguri, costretti ai lavori forzati nella lavorazione del cotone nello Xinjiang, boicottandone l’utilizzo, assieme ad altri marchi famosi di abbigliamento come H&M, Burberry e New Balance.

La reazione di Pechino è stata immediata, l’attacco alle aziende è avvenuto da parte del partito comunista cinese attraverso Weibo, il Twitter di Pechino. Poi i prodotti dei marchi nel mirino del governo cinese sono spariti dalle piattaforme di e-commerce, non solo Tmall ma anche su JD.com, Pinduoduo.

Così i conti di Nike e Adidas in Cina sono finiti in rosso, un monito per gli sponsor ufficiali dei Giochi di Pechino. E anche per il Comitato olimpico internazionale, che concedendo l’esclusiva ai marchi – prodotti con il logo delle Olimpiadi – si è assicurato circa tre miliardi di dollari tra Pechino e i Giochi di Parigi 2024.