Il ruolo della comunicazione e dei comunicatori nel new normal

“Il vero protagonista della pandemia è stato il linguaggio. Ne è certo Renato Vichi, Group Head Senior Director Institutional Affairs External Communications International Banks di Intesa Sanpaolo, come ha affermato dal palco del Premio FERPI.”

Mi fa immensamente piacere essere insieme a tanti colleghi questa sera. E sono molto grato a tutti voi per questo invito che ho preso molto sul serio perché mi ha costretto a fare sintesi su alcune riflessioni che mi ronzavano nella testa già da qualche anno…

L’emergenza pandemica

La riflessione si è presentata (purtroppo) nel corso di un evento pandemico, quello del Covid…un’autentica tragedia (uso il linguaggio con la giusta armonia semantica delle parole… e capirete perché).

E non potevo registrare quello che è accaduto come ho sempre fatto, su un taccuino, come mi è già capitato per anni quando ero un giovane giornalista dell’Ansa e, ancora dopo, anche in azienda, come comunicatore.

Sono due i protagonisti che emergono in questo taccuino: il primo si chiama emergenza e l’altro linguaggio.

Per essere chiari: non voglio analizzare come è stata gestita la comunicazione. Mi sembra che ormai questo tema sia stato trattato da molti. Nel mio taccuino ho trascritto soltanto quali e quante distorsioni volontarie e involontarie si sono registrate nell’agorà pubblica. E non ho potuto fare a meno di esaminare la molteplicità degli attori ed i rispettivi e diversi linguaggi utilizzati in un momento emergenziale anche dal punto di vista emozionale per ognuno di noi e per la società.

Ma l’emergenza, come tutte le emergenze, ha sottoposto tutti quanti noi ad un enorme sforzo cognitivo in una situazione dove hanno dominato diversi tipi di linguaggi.

Il linguaggio è stato il vero protagonista di questa emergenza.

Il linguaggio diventa il terreno della contrapposizione

Ma perche? Perché il linguaggio è diventato il terreno della contrapposizione e non del confronto (assai raro…) abbiamo assistito ad una lotta tra categorie, e centri di potere ed è emerso in maniera subdola ma decisa l’uso di un linguaggio bellico.

I media hanno spesso parlato della pandemia come di una guerra, di medici e infermieri al fronte, in trincea, in prima linea. Personalmente penso che si sia trattata di una narrazione tossica, che ha portato con sé una serie di effetti negativi e di conseguenze che hanno generato ansia, paura, insicurezza e altro che vedremo tra un po’.

Ricordiamoci che il concetto di guerra rimanda a quello di nemico (concetto divisivo per eccellenza), quindi una narrazione di questo tipo è risultata divisiva e ha alimentato il disagio sociale.

Nessuno stato ha avuto l’accortezza di utilizzare linguaggi piu’ rassicuranti, perché la pandemia ci ha colti così di sorpresa da mettere a nudo le nostre fragilità. E le nostre fragilita’ si sono tradotte soprattutto attraverso il linguaggio.

Le classi del potere

Ora in tutto questo contesto ho fatto un cenno alle classi del potere. Le solite, nulla di diverso da quello che noi comunicatori siamo chiamati ad osservare, che hanno agito come vere polarità sociali quasi sempre in conflitto tra di loro (altro elemento divisivo): la politica, gli scienziati, i media, i no vax, i sovranisti, i media…

a) da una parte una pluralità di soggetti con un ruolo preminente da parte delle istituzioni, tra i quali abbiamo assistito in una prima fase al conflitto tra governo e regioni anche sotto il profilo della comunicazione

b) la presenza e la dominanza di un polo sanitario sulla pandemia, dove sempre con diversi linguaggi e con uno sforzo cognitivo ancora più stressante da parte dell’opinione pubblica, abbiamo faticato non poco per comprendere le priorità e le ricadute di quanto ci veniva spiegato

c) il terzo elemento e’ quello più pericoloso, è il linguaggio: strumento principe dove il giornalismo mainstream (l’infodemia) e il mondo dei social media si sono accaparrati i posti in prima fila drammatizzando un disagio già in essere e creando un clima sociale fortemente divisivo di suo

Le parole sono importanti: scienza e informazione un connubio conflittuale

Il massiccio diffondersi di notizie sia accurate sia inaccurate su un argomento scientifico ed emergenziale così complesso ha reso difficile l’orientamento sociale e ha aumentato il livello di paura ed insicurezza trascinando larga parte della societa’ nel panico più diffuso.

Il linguaggio prodotto è stato ancora una volta il protagonista assoluto in un gioco delle parti anzi delle diverse parti in gioco e più comunemente anche tra i protagonisti della scienza che si sono succeduti in apparizioni ed esposizioni continue.

Il linguaggio è stato il vero medium dell’emergenza (oserei dire anche scientifica) ma invece di legittimarsi ha creato ampie sacche di disinformazione e un bisogno (misto a paura) di riconoscere la qualità dalla quantità esponendo tutti noi ad uno sforzo cognitivo altamente stressante. esempi: basta ricordare chi definiva l’emergenza pandemica come una semplice influenza, magari più forte ma pur sempre un’influenza.

Dopo due anni di emergenza il nostro Paese è stato in grado di risolvere molte questioni, ma dopo uno stress di questo tipo e mai vissuto in precedenza, il condizionamento al quale ci ha esposti questo linguaggio divisivo è ancora molto evidente.

Siamo peraltro in una situazione dove la molteplicità di opinioni ci rende ancora fortemente esposti al disagio e comprendo personalmente lo sforzo che tanti colleghi comunicatori e giornalisti hanno fatto e fanno ancora per affrontare la complessità del momento, lungo direi, ma pur sempre complesso.

Questo momento ci sembra un po’ a tutti un’eternità. Sappiamo quando è iniziata l’emergenza, ma non ne conosciamo ancora la fine. ci sono state e ci sono distorsioni non sembre addebitabili alle fake news, l’informazione mainstream raccoglie sì opinioni, ma un’opinione non rappresenta certo la verità.

A questo, va detto, si accompagna anche un giornalismo non chiaro, poco investigativo in grado magari di proporre certezze (e non dovrebbe farlo) o di propinare le tesi minoritarie perché fanno più notizia.

C’era già terreno fertile per la disinformazione? Sì, perché già nel 2017 il consiglio d’Europa elaborò come sapete tutti un rapporto intitolato information disorder. In questo rapporto si prevedono sostanzialmente due situazioni:

  –  la prima è quella della disinformation, ovvero della volontà di costruire notizie false per orientare comportamenti collettivi dopo aver modificato idee e opinioni individuali

  –  la seconda è la misinformation, ovvero la diffusione involontaria di notizie false che si propagano in modo virale, indipendentemente dall’azione specifica del produttore dei contenuti

Protagonista assoluto di questo processo? Lui sempre lui, il linguaggio, sono le parole ad alimentare questi flussi infernali capaci di creare caos, panico, angoscia e paure collettive, o addirittura sfiducia. Sfiducia nelle istituzioni, nei mezzi a nostra disposizione, nelle possibili cure… in noi stessi, emarginando intere fasce della società, quelle più deboli, e con strumenti cognitivi più fragili.

Sono loro le vittime più dirette di questo fenomeno, che produce uno stato di aggressione continua e un comportamento divisivo a più livelli.

Non essendoci più alcun effetto di intermediazione autorevole i processi comunicativi si sono orizzontalizzati e il popolo del web (chiamiamolo così, per capirci) si muove in modo interattivo, proattivo e, in molti casi (vedi TikTok), co-creativo nel processo di produzione dei contenuti.

Un nuovo processo di speranza: la concordia

Vorrei però rimettere l’accento sul valore del linguaggio, sulla sua potenza, sulla sua capacità anche inclusiva e chiarificatrice.

Non ho certo io la formula, ma mi piacerebbe che si avviasse un processo di speranza in cui la contrapposizione diventi soprattutto dialogo e confronto.

Alcuni anni fa e per la prima volta sono stato colpito da una parola pronunciata più volte anche da Papa Francesco. La parola è concordia.

Esaminando meglio il significato perchè la curiosità era tanta, ho scoperto che la parola porta con sé due significati molto specifici: unione e armonia. Non vi nascondo che me ne sono innamorato.

Perchè il significante comunicativo dietro questa parola sembra quasi una profilassi al dramma che stiamo vivendo, un dramma fatto di eventi che contrappongono gli uni contro gli altri ed un linguaggio violento e divisivo che privilegia la contrapposizione all’unione.

A mio parere una società che divide penalizza i più deboli e a sua volta un linguaggio divisivo emargina i più deboli e li confina nella paura. Tra questi non dimentichiamo che ci sono proprio i giovani, ossia il nostro futuro.

Noi siamo al servizio di importanti istituzioni pubbliche e private. Siamo abituati alla vicinanza con il potere. e se lasciamo indietro le fasce più deboli rischiamo di ampliare questo gap. E di rendere l’emarginazione dei prossimi anni ancora più profonda.

Non credo di osare così tanto se dico che le imprese e le istituzioni dovrebbero occuparsi maggiormente di queste debolezze: in primis perché una vera sostenibilità economica e sociale si crea con un contributo più ampio possibile della società e in secondo luogo perché fornirebbe una piattaforma sociale più equa e sicura per adeguare tutti noi e le giovani generazioni ad affrontare il futuro.

Il linguaggio può aiutare, può modificare i comportamenti e può curare alcune attitudini.

Spero tanto che la comunicazione possa intraprendere questo percorso. Ma per farlo occorrerebbe dedicare più tempo all’ascolto e ad un atteggiamento più gentile, meno urlato e più propenso ad aiutare gli altri alla comprensione delle problematiche. questa io la chiamo armonia. Un percorso che i premiati di questa sera hanno sicuramente intrapreso per eccellere nel loro lavoro.