Brandroad. Le vie della marca (2). A cura di Matteo Lusiani

Lezioni dalla rivoluzione creativa – 2

Nel mondo della pubblicità gli anni Sessanta sono ricordati come la Rivoluzione creativa. Fino a quel momento il modo di scrivere gli annunci era piuttosto freddo e “scientifico”.

I pubblicitari di quegli anni, infatti, erano cresciuti leggendo il libro “Scientific Advertising” di Claude Hopkins, l’uomo che aveva inventato i coupon per tracciare l’efficacia delle campagne stampa. Inoltre uscivano da un’epoca dominata dalla “unique selling proposition” teorizzata da Rosser Reeves, secondo la quale per promuovere un prodotto bisogna trovare il suo vantaggio rispetto ai concorrenti e comunicarlo insistentemente (e fastidiosamente) fino a infilarlo nella testa dei consumatori con la forza della ripetizione. 

Contro questo tipo di pubblicità si erge il leggendario Bill Bernbach, fondatore della DDB (acronimo di Doyle Dane Bernbach), probabilmente l’agenzia creativa più importante della storia. Si deve alla DDB, ad esempio, il concetto di coppia creativa composta da un copywriter e un art director, che da allora è alla base del funzionamento di qualunque agenzia pubblicitaria.

Il lavoro più famoso della DDB è stato fatto per Volkswagen. È una campagna durata più di un decennio, dal 1959 all’inizio degli anni Settanta, che secondo la rivista Advertising Age è la migliore del secolo. Una delle prime uscite è una pagina quasi completamente vuota, con un piccolo maggiolino nell’angolo in alto a sinistra e il claim “Think small”, ovvero ‘pensa in piccolo’. 

Da questa celeberrima campagna il branding ha molto da imparare. Ci troviamo prima che si cominci a riflettere sul significato di marca, prima dei modelli di branding e prima della diffusione dei brand manager. Eppure, il maggiolino ci appare già come “qualcosa di più” che una semplice macchina. 

Negli Stati Uniti degli anni Sessanta la Volkswagen è una sfida al pensiero in grande, è la macchina degli americani che non si riconoscono nella narrazione dominante dell’America. È vero che in questi anni Volkswagen è una marca costruita a posteriori, dalla comunicazione, in particolare da una geniale campagna che ha saputo portare a galla dei significati nascosti del prodotto. Ma è già una marca. 

Nella seconda tappa del podcast Brandroad, il mio viaggio alla scoperta di cos’è un brand, ho chiesto a Giuseppe Mazza quali lezioni possiamo trarre dagli anni Sessanta su come si costruisce un brand. Mazza è uno dei copywriter italiani più premiati, ha fondato l’agenzia Tita ed è un grande conoscitore della Rivoluzione creativa. Ha curato una raccolta di testi di Bill Bernbach dal titolo “Bernbach pubblicitario umanista” e ha diretto Bill Magazine, una rivista ispirata al suo approccio. Mi ha risposto: 

“Quello che è stato stabilito in quel momento è che la costruzione di un discorso di marca è un evento essenzialmente umanistico, un evento che sfugge a regole aritmetiche e assiomi razionali”. 

Un brand nasce intorno a un tema che interessa le persone, non il business. È un fatto umano, tocca delle corde emotive. Nei decenni successivi si scoprirà che la marca ha anche un enorme valore strategico ed economico, ma questo non dovrà mai farci dimenticare la più grande lezione degli anni Sessanta: i brand devono basarsi su quel tanto di creatività che serve a comprendere un qualche aspetto profondo dell’animo umano e costruirci attorno un prodotto, un modello di business e una comunicazione.

Matteo Lusiani

Consulente per strategie di branding | matteolusiani.com

Autore del podcast “Brandroad. Le vie della marca” | brandroad.it

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