Il Marketing cross-culturale: la comunicazione non è uguale per tutti

Il Marketing cross-culturale: la comunicazione non è uguale per tutti

In un mondo sempre più globalizzato, le aziende sono tentate a
standardizzare le proprie strategie comunicative e di marketing. Ma
attenzione: non per questo bisogna dimenticare le differenze culturali
tra i diversi paesi! È proprio qui che entra in gioco il marketing
cross-culturale. Di cosa si tratta?

A cosa serve il marketing cross-culturale?

Fare marketing cross-culturale significa tenere in considerazione le
differenze tra le diverse culture che compongono il mercato di
riferimento dell’azienda. Tradizioni, usanze, credenze e comportamenti,
infatti, possono variare più o meno profondamente tra un paese e l’altro
e questo potrebbe cambiare drasticamente le sorti di una campagna di
marketing.

Ad esempio, una campagna basata sul numero 13 sarà accolta con
terrore negli Stati Uniti dato che questo numero è considerato talmente
sfortunato che negli ascensori non esiste il tasto 13 e negli edifici si
sale direttamente dal dodicesimo al quattordicesimo piano.
Un altro esempio è il colore bianco che, nel mondo occidentale, è
considerato un simbolo di luce e purezza, mentre in paesi come il
Giappone e la Corea del Sud, è associato alla morte, tanto che i
garofani bianchi sono i fiori più utilizzati durante i funerali.

Questi dettagli, che a primo impatto potrebbero sembrare di poco
conto, sono in grado di compromettere totalmente una campagna di
marketing e di tradursi in ingenti perdite economiche, nonché in un
enorme danno d’immagine per l’azienda che commetta un errore di
valutazione di questo tipo.

Glocalizzazione: Think global Act local

Con il termine glocalizzazione si intende quel processo che mette in
relazione le specificità delle singole realtà territoriali con il
contesto internazionale. Questo fenomeno, nato negli anni Ottanta,
risponde all’esigenza di comprendere l’importanza di adattare prodotti e
servizi in termini di prezzo, packaging, tipologie e canali di
comunicazione ai diversi mercati di riferimento.

Da qui l’espressione Think global Act local, che
indica il modus operandi di quelle aziende che, presenti a livello
internazionale, scelgono di customizzare la propria offerta tenendo
conto delle caratteristiche dei diversi paesi. Non tutte le aziende,
però, scelgono questa strategia; alcune, infatti, decidono di adottare
un approccio standardizzato.

Cos’è la standardizzazione?

Si parla di standardizzazione quando ci si riferisce a quelle aziende
che adottano le stesse politiche aziendali a livello internazionale. Si
tratta di solito di compagnie che ricercano i vantaggi economici
derivanti dalle economie di scala e dallo sfruttamento di un’unica
immagine a livello globale.
Traendo vantaggio dalle similitudini tra i diversi mercati, è più facile
rispondere velocemente alle richieste del mercato stesso poiché si
adotta la stessa strategia a livello internazionale e non è necessario
adattarla ad ogni paese, con un conseguente risparmio di tempo e risorse
finanziarie.

Ne sono un esempio le campagne Wilson: gli articoli sportivi,
infatti, sono destinati ad un pubblico che ha le stesse necessità in
tutto il mondo, ovvero poter acquistare un prodotto che risponda a
specifiche caratteristiche tecniche e che sia in grado di assicurare la
performance migliore. In questo caso le leve di marketing sono declinate
nello stesso modo in tutti i mercati.

La strategia di adattamento

La strategia di adattamento, al contrario della precedente, prevede
l’adeguamento delle politiche aziendali alle caratteristiche, ai gusti e
alle esigenze del mercato locale. Si tratta di una scelta più costosa
che, in genere, porta però a grossi vantaggi nel lungo periodo, poiché
favorisce la fidelizzazione dei clienti, garantendo nel tempo una
maggior redditività.

L’adattamento riguarda i diversi elementi del marketing mix:

– Prodotto: le aziende possono decidere di vendere o meno alcuni
prodotti in diversi mercati. Ad esempio, i menù di McDonald’s sono
diversi nei vari paesi del mondo: il Crispy McBacon, tra i panini più
richiesti in Italia, non esiste negli Stati Uniti e in India non viene
servita carne di manzo per motivi religiosi. Inoltre, i menù sono ricchi
di alternative vegetali, poiché gran parte della popolazione è
vegetariana.
– Promozione: le campagne non devono solo essere tradotte nella
lingua parlata nel paese di riferimento ma spesso sono gli stessi
messaggi a dover essere modificati, per evitare spiacevoli
fraintendimenti. La stessa McDonald’s è dovuta correre ai ripari dopo
aver tradotto in francese il nome Big Mac con Gross Mac, che significa
letteralmente “grosso pappone”.
– Prezzo: può variare anche molto significativamente tra i diversi
paesi a causa del tasso di cambio, dei dazi doganali o del potere
d’acquisto dei consumatori . Ad esempio, i prezzi dei capi di Zara in
Spagna sono mediamente inferiori del 20% rispetto al resto d’Europa.
– Distribuzione: è importante, infine, rendere il prodotto
disponibile nei giusti luoghi; per questo le aziende devono poter
mappare i diversi canali distributivi e scegliere quelli più adatti alle
proprie esigenze e ai propri obiettivi nei singoli mercati.

Ma come avviene l’adattamento? Vediamo qualche esempio.

Netflix: ce n’è per tutti

È innegabile che Netflix abbia fatto della multiculturalità un suo
punto di forza: l’immenso catalogo, infatti, è pieno di film e serie TV
realizzate in diversi paesi del mondo. Da Squid Game, serie Sudcoreana
di incredibile successo, a La Casa di Carta, prodotta e realizzata
Spagna, alle serie italiane come Suburra, Netflix riesce a intercettare
bisogni e necessità di un pubblico estremamente vasto e caratterizzato
da enormi differenze di target e culturali, mettendo a disposizione
degli utenti una vasta scelta di contenuti. Si tratta quindi di un forte
adattamento a livello di prodotto.

Chanel: dal local al global

Ormai da una decina d’anni il mercato asiatico del lusso è in forte
crescita, tanto che i grandi brand hanno cominciato ad adattare le
campagne pubblicitarie scegliendo come brand ambassador celebrità molto
conosciute nei diversi paesi di riferimento.
In particolare, le case di moda, spinte anche dall’esigenza di parlare
sempre più ai giovani, hanno cominciato a lavorare con i k-pop idol, le
star della musica Sudcoreana, capaci di influenzare milioni di ragazze e
ragazzi non solo in Corea del Sud, ma anche in Cina, Giappone, nelle
Filippine e in tutto l’estremo Oriente.

Un esempio su tutti è quello di Chanel che, dal 2017, ha scelto
Jennie Kim, membro del gruppo delle BlackPink, come ambassador del
mercato asiatico. La particolarità di questo caso è che la
collaborazione non è solo andata molto bene dal punto di vista delle
vendite, ma ha coinciso con l’esplosione del K-pop in America e in
Europa e Jennie Kim è oggi global ambassador della casa di moda francese
e protagonista della campagna della collezione Coco Neige, lanciata lo
scorso ottobre.

Kit Kat: quando l’adattamento diventa un cult

Una delle politiche di adattamento più affascinanti nel mercato del food è quella operata da Nestlè per il Kit Kat, che è diventato negli anni uno dei dolci più amati in Giappone.

Come ci sono riusciti? Innanzitutto, giocando sull’assonanza tra il nome Kit Kat e il termine Kitto Katsu, che significa “vincerai sicuramente”. Questo ha reso il prodotto una sorta di portafortuna e ne ha aiutato la diffusione soprattutto tra ragazze e ragazzi, a cui viene regalato prima degli esami come simbolo di buon auspicio. L’intuizione vincente, però, è stata l’idea di creare un’enorme varietà di gusti tra cui scegliere, venduti solo in Giappone.

Pare che dal 2000 a oggi siano stati venduti oltre 200 gusti di Kit-Kat tra edizioni limitate e produzioni tradizionali: dal the matcha, al cheese cake, dal gusto castagna a quello di patate al forno, al mais. Questo li ha resi un vero e proprio oggetto di culto, nonché un souvenir molto apprezzato dai turisti che tornano dalle loro vacanze in Giappone con le valigie piene delle tavolette di cioccolato reperibili solo lì